L’Italia è un ‘contenitore turistico piccolo’, spiega il presidente dell’associazione di categoria Bernabò Bocca, e deve scegliere quali turisti accogliere, puntando su quelli che possono portare più benefici economici sia agli hotel che al territorio.
Nata oltre cento anni fa, Federalberghi è l’associazione che rappresenta oggi 27mila dei 32mila hotel che si trovano in Italia. Il suo presidente Bernabò Bocca – che è anche numero uno del gruppo alberghiero Sina Hotels, fondato dal padre Ernesto – è intervenuto in collegamento da remoto al primo Pambianco Hotellerie Summit, per analizzare alcune tematiche tra le più attuali nel mondo dell’ospitalità italiana.
Quali sono i temi oggi strategici per il settore?
Al momento la situazione è positiva e non è certo un risultato scontato visto che arriviamo da un triennio caratterizzato da grandi problemi. Non solo la pandemia ha influito negativamente sul comparto, ma anche l’inflazione, che sta riducendo la spesa delle famiglie italiane verso l’ambito turistico, e la guerra in Ucraina hanno contributo a complicare nell’ultimo periodo la vita degli albergatori della Penisola. I quali però sono imprenditori ‘di razza’ e hanno reagito subito: basti pensare che i numeri di presenze del 2022, nonostante i primi tre mesi fossero ancora di chiusura pandemica, sono già stati vicini a quelli del 2019. Il nostro obiettivo è realisticamente quello di superarli già in questo 2023. Io dico sempre che bisogna misurare il nostro settore in termini di ricavi e non in termini di presenze: e nel 2022 la bella notizia è che sono arrivati anche grandi aumenti nei ricavi, grazie ad esempio al ritorno in massa dei turisti americani che sono altospendenti. In attesa che presto tornino anche quelli del far east.
All’Italia serve un posizionamento diverso?
Io sono assolutamente convinto che l’Italia debba ragionare non solo come destinazione ma anche come brand. Il nostro Paese non può essere una meta per tutti, ma oggi più che mai deve scegliere un posizionamento internazionale che punti su target con grande capacità di spesa. L’Italia è infatti un ‘contenitore piccolo’ che va utilizzato bene per farlo rendere turisticamente al meglio.Dobbiamo‘scegliere’ i turisti da accogliere. E in quest’ottica più ospiti ricchi arrivano più è un bene per tutto il Paese. Basti pensare che in media la spesa di qualsiasi turista durante una vacanza va per il 50% all’hotel e per l’altro 50% sul territorio, permettendo di generare una crescita economica a tutto l’indotto, tra ristorazione, shopping ed esperienze culturali o ludiche.
Che cosa bisogna migliorare allora?
L’Italia è gettonata dai viaggiatori a stelle e strisce, e, va detto, è ben riconosciuta da cinque o sei grandi mercati. Ma per crescere serve di più: è necessario uno sforzo di marketing per fare scoprire a più stranieri le realtà italiane meno conosciute, e sono tante, e non hanno niente da invidiare alle grandi città d’arte o a località come Capri e Taormina. È certo un bene che nei prossimi anni apriranno a Roma oltre 2.000 camere di alberghi di catene internazionali luxury. Però queste grandi realtà stanno investendo solo nella Capitale e in altri luoghi iconici – Firenze, Venezia, Milano – ma non altrove. Lo sforzo che dobbiamo fare oggi è invece quello di far conoscere le destinazioni meno frequentate per ampliare le proposte adatte a un pubblico di alta gamma che ha invece tanta ‘fame’ di Italia e di vivere all’italiana. In quest’ottica sarebbe auspicabile che le grandi catene investissero in questi luoghi ‘minori’, penso ad altre magnifiche città d’arte come Verona o Torino, perché sono brand che, come si dice, ‘fanno la destinazione’ e quindi aiuterebbero uno sviluppo turistico più ampio e articolato del Paese.
Catene che in Italia pesano ancora poco…
È vero, oggi il 2% degli alberghi italiani genera un terzo del fatturato globale del settore, mentre il resto sono micro imprese, quasi sempre familiari. Ma sul mercato di oggi essere piccolo può essere un problema e infatti uno dei nostri obiettivi è quello di accompagnare queste realtà verso forme di aggregazione che le possano aiutare a competere meglio soprattutto sul mercato internazionale. Certo, c’è anche un paradosso tutto italiano in questa situazione: poiché i finanziamenti istituzionali sono rivolti sempre alle piccole imprese, quando una realtà alberghiera cresce va a perdere questo tipo di sostegno che invece sarebbe comunque molto utile. Nonostante ciò a mio avviso, per le piccole aziende del turismo, trovare delle forme di aggregazione, almeno di carattere commerciale, resta determinante in un mercato così competitivo come quello di oggi.
Con Sina Hotels come lavorate?
Fondato da mio padre Ernesto negli anni Cinquanta, oggi il gruppo alberghiero di famiglia conta 11 strutture posizionate nelle principali destinazioni italiane – Roma, Venezia, Firenze e Milano – e nel 2022 ha raggiunto un fatturato di 53 milioni di euro, oltre il doppio dei 21 milioni dell’anno precedente e superando anche i 45 milioni del 2019. Rispetto al comparto attuale siamo in controtendenza perché siamo proprietari di tutti gli immobili e questo ci ha aiutato a superare la pandemia, non avendo ad esempio affitti da pagare. Nel futuro prossimo vogliamo sicuramente crescere ma in maniera sostenibile, con eventuali acquisizioni che siano complementari al portafoglio già in essere. Oltre a ciò siamo aperti a formule diverse, di tipo gestionale. Nei prossimi due o tre anni infatti vogliamo crescere a livello dimensionale e per farlo in fretta le formule di management sono più adeguate, rispetto a un acquisto immobiliare che è finanziariamente più impegnativo e quindi rallenta di più la crescita del gruppo.