L’alta cucina è sempre più presente nelle strutture alberghiere e diventa non solo un servizio d’eccellenza, ma anche un richiamo internazionale. Le stelle dei ristoranti finiscono per contare
più di quelle degli hotel.
di Andrea Guolo
Da ristorazione di necessità a locale di fine dining, la trasformazione dell’offerta f&b interna agli hotel italiani è ormai una realtà, riconosciuta dalle guide e quasi allineata al trend internazionale, dove l’alta cucina si trova soprattutto nei ristoranti d’albergo. Un processo che segue di pari passo gli investimenti dei top player del comparto ospitalità nel nostro Paese, che puntano a fare del ristorante – non più interno all’hotel ma aperto al mondo – un biglietto da visita per attrarre la clientela più esigente e anche un veicolo di comunicazione, attraverso la conquista di premi e riconoscimenti funzionali al prestigio della struttura alberghiera.
TANTE NUOVE STELLE
L’ultima edizione della guida Michelin ha consolidato questo trend. Uno dei tre nuovi ristoranti ad aver conquistato le “due stelle” è infatti il Santa Elisabetta dell’hotel Brunelleschi di Firenze. E altre promozioni riguardano i ristoranti che hanno conquistato la prima stella. A Massa Lubrense (Napoli) c’è il Relais Blu, situato all’interno di un boutique hotel nella penisola sorrentina, con lo chef Alberto Annarumma in cucina. A poca distanza c’è il Lorelei, con lo chef Ciro Sicignano che ha permesso al ristorante dell’hotel cinque stelle Lorelei Londres Sorrento di ottenere il primo macaron della Michelin. Tra i neostellati compaiono poi il Nove di Alassio (Savona), del luxury hotel Villa della Pergola (chef Giorgio Servetto), e il Kitchen Restaurant dello Sheraton Lake hotel di Como (chef Andrea Casali). In Chianti Classico, c’è la novità del Poggio Rosso del relais Borgo San Felice di proprietà Allianz, entrato tra le stelle grazie all’impronta vincente di Enrico Bartolini e al lavoro del resident chef Juan Camilo Quintero. Sempre in zone di grandi vini, a Montalcino l’offerta enoturistica di Castello Banfi comprende, tra le altre cose, l’hotel Il Borgo e due ristoranti, tra cui il nuovo stellato La Sala dei Grappoli (chef Domenico Francone). Nel più piccolo hotel 5 stelle dell’Alto Adige, Castel Fragsburg a Merano, è arrivata la stella grazie allo chef Egon Heiss del ristorante Prezioso. Completano la scena due locali veronesi tra i vigneti dell’Amarone: l’Amistà di San Pietro in Cariano, situato all’interno dell’hotel Byblos (chef Mattia Bianchi) e il La Cru di Romagnano (chef Giacomo Sacchetto), attualmente solo ristorante, ma in prospettiva anche relais nella dimora storica Villa Maffei Medici Balis Crema.
IN VETTA ALLA CLASSIFICA
Con tutte queste nuove stars, la ristorazione di hotel ha fatto un bel passo in avanti nella considerazione della più prestigiosa guida del fine dining, che già in passato aveva inserito due insegne nate all’interno di un albergo nell’olimpo dei tre stelle. Si tratta de La Pergola di Heinz Beck, ristorante del Rome Cavalieri Waldorf Astoria (gruppo Hilton) e del St. Hubertus di San Cassiano (Bolzano), con lo chef Norbert Niederkofler punta di diamante dell’hotel Rosa Alpina (partner del gruppo Aman). Si aggiungono due tristellati che a loro volta hanno aggiunto l’offerta hotellerie come integrazione alla ristorazione: Da Vittorio (chef Chicco e Bobo Cerea) a Brusaporto (Bergamo), con il resort La Cantalupa, e Reale di Castel di Sangro (L’Aquila), dove Niko Romito ha realizzato, con Casadonna, nove camere di charme in un ex convento del ‘500. E l’elenco continua, ancora più nutrito, andando ad analizzare i ristoranti che possono vantare le due stelle, dove compaiono i nomi di diverse catene internazionali di fascia luxury. Tra queste c’è il Mandarin Oriental, con il ristorante Seta dell’hotel situato nel cuore di Milano. In cucina c’è lo chef Antonio Guida, giunto al Seta dopo aver conquistato due stelle nel ristorante di un altro celebre hotel, Il Pellicano a Porto Ercole, dunque uno specialista di quest’ambito. “Essere all’interno di un hotel, per Seta, rappresenta sicuramente un vantaggio – racconta Guida – perché garantisce maggiore stabilità, anche in un momento complesso come quello che stiamo vivendo. Inoltre, abbiamo l’opportunità di soddisfare appieno gli ospiti di alto livello che frequentano l’hotel, fra cui molti appassionati gourmands che scelgono la destinazione anche per l’offerta gastronomica. E poi è fondamentale per noi il rapporto diretto e fidelizzato con i milanesi e i lombardi, che rappresentano la maggior parte dei nostri ospiti al Seta e al Mandarin Bar & Bistrot”. Una visione condivisa da Claudio Catani, general manager del Brunelleschi Hotel di Firenze, a cui interno opera il ristorante consacrato quest’anno con la seconda stella Michelin ovvero il Santa Elisabetta dello chef Rocco de Santis. “È certamente vero – afferma Catani – che una ristorazione di qualità fa molto bene all’albergo, perché alza il livello non solo delle colazioni, di cui tutti i clienti fruiscono, ma anche dei servizi accoglienza, prenotazioni, e in generale costituisce un supporto di eccellenza. Al tempo stesso, essere in un hotel permette di raggiungere una sostenibilità economica, per un’attività come quella di fine dining, che diversamente faticherebbe a far quadrare i conti. Quando sento dire che nella ristorazione si va bene quando si va a pareggio, un po’ mi sorprendo, perché ritengo che la qualità debba procedere di pari passo con il profitto”. Il Santa Elisabetta è un ristorante-boutique, con pochi tavoli (7 in tutto) e la capacità di gestire 14-18 coperti: queste dimensioni, unite all’alto livello di servizio richiesto, determinerebbero le difficoltà di chiudere in attivo, in assenza di una sinergia come quella dell’hotellerie. “Economicamente, l’operazione non potrebbe reggere” sostiene Catani. In più c’è il contributo della clientela del ristorante, che pur non essendo predominante – si parla di un 30% dei coperti in periodi normali, che può salire al 50% nei momenti ad alta intensità turistica – offre un buon contributo. “Occorre comunque precisare che il Santa Elisabetta non è considerato un ristorante d’hotel dalla clientela esterna e in particolare non dai fiorentini, che frequentano abitualmente il nostro ristorante fine dining”.
Lo storico Grand Hotel Principe di Piemonte a Viareggio è ormai un habitué della seconda stella Michelin, che il suo ristorante Il Piccolo Principe (chef Giuseppe Mancino) può sfoggiare da sette edizioni della guida “rossa”. Salvatore Longo, general manager della struttura entrata lo scorso anno all’interno della galassia Gb Invest (che in Versilia è anche proprietaria del celebre bagno Maitò di Forte dei Marmi e dell’adiacente ristorante Orsa Maggiore), sottolinea i vantaggi della sinergia tra hotellerie e ristorazione. “È sicuramente – afferma – un grandissimo vantaggio che ci differenzia dai nostri competitori e ci distingue; allo stesso tempo, spinge la struttura alberghiera a lavorare in sintonia con il Piccolo Principe avvicinando il più possibile i livelli di servizio dell’intero Grand Hotel Principe di Piemonte; le due cose crescono così insieme per raggiungere livelli di eccellenza”. Inoltre, precisa Longo: “Le due stelle Michelin a livello internazionale contano molto di più che le 5 stelle di categoria dell’hotel stesso”.
GESTIONE IN EMERGENZA
Durante la seconda ondata dell’emergenza Covid, con i ristoranti chiusi, gli hotel hanno avuto la possibilità di tenere aperto, e con essi i ristoranti al loro interno. È stato un bene o un male, a livello economico? Per Il Piccolo Principe, qualche pro c’è stato: “La clientela è composta al 60% da clienti non residenti in struttura e purtroppo la possibilità di non accogliere ospiti residenti ha sicuramente creato un grande disagio, ma ha anche in parte ‘quasi costretto’ i nostri ospiti alloggiati a voler provare il ristorante”, sostiene Longo. Il Seta di Mandarin Oriental ha fatto una scelta diversa: “A partire da novembre, con le nuove restrizioni, soprattutto alla luce del fatto che la cena non poteva più essere servita agli ospiti esterni, abbiamo preferito concentrarci sull’offerta più agile del Mandarin Bar & Bistrot e sul servizio in camera. Siamo pronti a riaprire non appena sarà possibile, garantendo continuità nell’eccellenza, sia in termini di cucina che di servizio e benessere dei nostri ospiti”, afferma Guida. Il Brunelleschi, alla riapertura di giugno, ha invece preferito spostare il Santa Elisabetta nella parte destinata al bistrot Osteria Pagliazza, dotata di un dehors estivo e più accessibile dall’esterno. “E abbiamo fatto bene, perché durante l’estate i clienti volevano cenare all’aria aperta e questo ci ha permesso, alle tariffe del Santa Elisabetta, di avere sempre il pienone, distinguendoci dall’offerta media del centro di Firenze”, rimarca il general manager.